CHIESA DI SANTA MARIA ADDOLORATA
È ricordata dal Faino nel 1658 come l’Oratorium Pro Disciplinis dipendente dalla Parrocchia di Ossimo Superiore. Nella relazione del parroco del 1837 si legge: «…vi è l’oratorio della S.S. Addolorata vicino alla chiesa ove da un anno si celebra la Messa» e nella quale si radunano le ragazze della congregazione e i confratelli del S.S. Sacramento, in ore diverse, per le loro funzioni. Nella visita pastorale del Vescovo Verzeri (1889-90) l’Oratorio è chiamato «delle consorelle della Immacolata Concezione».
CHIESA DI SAN CARLO
È ricordata da B. Faino (1658) come «Oratorium S. Caroli in Colle» e dipendente dalla Parrocchiale di Ossimo Superiore, mentre P. Gregorio (1698) racconta la leggenda relativa alla sua erezione, legata alla visita pastorale di San Carlo che fece nel 1581: «…nel visitare la Chiesa di Ossimo di sopra si compiacesse molto di rimirare in una piccola pianura in cima ad un monticello, vicino a detta terra, una grande Croce elevata alla veneratione dè popoli… e onde doppo havere adorato quel legno trionfale della nostra salute e fatto ivi genuflesso un poco d’oratione, levato in piedi, disse con fronte serena, e bocca ridente a circostanti: Stanotte pur terrei qui una Chiesa, e come disse, tanto si fece col tempo, essendovi da quel popolo, per la devotione concepita verso S. Carlo dopo la di lui canonizzazione eretta una chiesa bellissima dedicata al suo nome». Invece è documentata la storia difficile della sua erezione: infatti da una lettera del Vicario foraneo di Breno, del 1617, al vescovo di Brescia risulta che la terra di Ossimo era stata sottoposta all’interdetto e sospesa già dall’ottobre del 1616 la costruzione della chiesa, perché gli abitanti volevano amministrare, per la costruzione di questo tempio i denari delle elemosine senza l’intervento del rettore. La data del 1630 circa, dataci dal Sina, non è quindi esatta,a meno che la fine dei lavori non si sia protratta fino a quell’anno.
MUSEO ETNOGRAFICO
Tappa quasi obbligata per chi si trova in Val Camonica è la visita al Museo Etnografico di Ossimo Superiore sorto per valorizzare le antiche tradizioni ed i mestieri della civiltà montana e contadina che per secoli ha caratterizzato la valle. Nella sede storica della canonica trovano posto non solo testimonianze e reperti relativi alla vita quotidiana della civiltà alpina locale, ma anche suggestive ricostruzioni di ambienti e attività lavorative. Il museo, allestito in un caratteristico stabile, offre al visitatore uno spunto per avvicinarsi alla lettura della Valle e delle sue molteplici caratteristiche che sono venute costruendosi nel tempo come tessere di un mosaico. Gli oggetti esposti nel museo sono stati scelti sulla base del loro valore simbolico, culturale e artistico. Quest’ultimo valore si delinea spesso non tanto in se stesso ma soprattutto in ragione del distacco tra il significato odierno e quello che gli oggetti rappresentavano nel passato: un significato degno di chiamarsi artistico in quanto capace di suscitare emozioni, di invitare chi osserva a ricostruire un mondo ormai scomparso.
CHIESA DI SAN ROCCO
A questo Santo le nostre genti spesso si rivolgevano con un tenue filo di speranza allorché una qualsiasi calamità imperversava, e la dedicazione a San Rocco fa pensare che si tratti di una chiesa sorta nel XV secolo. È del 20 novembre 1515 un lascito alla chiesa stipulato dal notaio Giacomo Filippo Ragazzi. Il Vescovo D. Bollani (1567) e il Pilati (1573) la ricordano negli atti delle loro visite. Per motivi che oggi ci sfuggono nella seconda metà del secolo XVI fungeva regolarmente da chiesa curaziale al posto di quella dei Santi Cosma e Damiano, ma nel 1580, San Carlo ordina che l’oratorio essendo piccolo e bisognevole di riparazioni, sia abbandonato, per quanto concerne le funzioni in favore della chiesa rettorile. Bernardino Faino nel 1658 ricorda la chiesa di San Rocco come oratorio per i disciplini. Nel 1817 ospitò i colpiti dalla peste petecchiale. Nel 1876 fu dotata di un campanile e fu restaurata ma successivamente la chiesa andò in disuso fino a che l’8 aprile 1945 venne completamente distrutta da una bomba caduta da aereo alleato. Fu ricostruita nel 1953 come risulta da iscrizione posta sull’arco trionfale.
SANTELLE E CROCEFISSI
Le «santele» sparse per i viottoli e per gli erti sentieri di tutta la valle, sono per lo più piccole costruzioni ad una nicchia o cella, nel cui sfondo è dipinto il santo o la santa protettrice; non di rado vengono affrescati anche i muriccioli esterni della «santela». Queste piccole e primitive cappellette sono come un pensiero spirituale materializzato e i passanti depongono e offrono fiori raccolti nei prati e qualche obolo nell’apposita cassettina. Oltre alle «santele», un’altra espressione popolare religiosa si manifesta nei «crocefissi» e molti ve ne sono ancora, sparsi per tutta la valle. È costruito, in genere, con assicelle ciò che forma la cornice,a figura romboidale ed è collocato al centro il crocefisso scolpito in legno; qualche volta tale scultura mostra una certa accuratezza o anche un pregevole lavoro d’intaglio, sovente però è un lavoro rozzo ma pur esprimente una rustica e profonda espressività. I crocefissi montani sono spesso semplici e poveri, ma hanno sempre il loro significato spirituale ed anche se scadenti o quasi abbandonati, troviamo ovunque che ignote mani depongono nel rustico «scatolòt» o appesi ad un chiodo un mazzo di fiori, umile pensiero di una preghiera. Non di rado crocefissi e santelle formano degli splendidi primi piani in vedute panoramiche, dimostrando con questi piccoli ma mirabili esempi ciò che sa dare il popolo quando esprime sinceramente il suo animo, il suo sentire profondamente umano. La fede si fonde con l’arte e la stessa natura. Il loro significato è puro, immune dai ripieghi artificiosi della civiltà, essi ricordano quasi le antiche are votive poste al cospetto dell’aperta natura, in quell’immenso tempio che è l’universo, il cui suolo è la terra e la volta è quella grandiosa del cielo. Particolare attenzione è da dedicare alle santelle di Pat, della Croce, delle Anime purganti, della Madonnina del ponte della Rocca e di Santa Eurosia ed anche al cimitero vecchio di Ossimo Inferiore.
LOCALITA’ PAT
Quando la peste nel 1630 raggiunse la Val Camonica, registrando in quel di Ossimo ben 234 decessi, venne eretto in località Pat un lazzaretto dove ogni anno si commemora quanti in questi luoghi furono seppelliti. L’agente di questa malattia è un bacillo, pasteurella pestis, gram-negativo che infetta i roditori producendo in essi la malattia che può decorrere in forma acuta o in forma cronica. Sono però le pulci che parassitano detti animali a trasmettere il morbo agli altri del gruppo e se i ratti sono a contatto con l’uomo, cosa frequente quando le regole igieniche erano quanto mai precarie, lo possono infettare. Negli agglomerati abitati la peste trovò, quindi, campo per diffondersi agli uomini che a loro volta si trasmisero il morbo con le pulci ed i colpi di tosse. Nel 1630 la peste, portata dai tedeschi in Italia, e dopo aver fatto miserande stragi in Mantova, Venezia, Bologna, Milano e in pressoché tutte le città e terre di Lombardia, si diffuse anche tra di noi; e nello spazio di sette mesi perirono per il contagio più di quattromila persone. I funzionari della Repubblica Veneta che ben conoscevano l’andamento dell’epidemia pestosa, e anche gli stessi medici, o per convinzione o per convenienza, negavano l’esistenza della peste. Episodi questi, descritti in maniera superba dal Manzoni. Molti in tal caso erano i morti per fame, e attribuire ad essa la morte era un comodo per negare la peste. Ma il dilagare della malattia, ad un certo punto, non poteva più essere tenuto segreto ed allora si cercava una risposta al perché di tanto sconquasso e si finiva per attribuirlo ad un castigo divino. Fu adottato anche un antidoto, la «Triaca o Teriaca» di origine medio-orientale che fece la fortuna commerciale di Venezia. La «Teriaca» era un insieme di tante erbe, per l’esattezza 54, scelte con cura in un supporto di carne di vipera, ma con l’andar del tempo, dopo aver fruttato ottimi affari, si riconobbe che… non valeva proprio un bel niente. L’importante era crederci. Il bresciano della montagna «che grosso parla ed è sottil d’ingegno», sa ad ogni modo che tali rimedi avranno, per lo meno, una virtù che sarà quella del «…se non farà bene, non farà neppure male…» Nessuna malattia come la peste ha inciso profondamente nella storia dell’umanità con i suoi milioni di morti, con i relativi sconvolgimenti economici, agricoli, sociali e religiosi.